UN VOLO SULLE TRAGEDIE DELLA STORIA



Romain Gary, GLI AQUILONI, Neri Pozza, 2017

Un giovane appena uscito dall’adolescenza nel pieno della Seconda Guerra Mondiale; una storia di formazione; una volontà di resistenza che non si arrende all’odio e non smette di interrogarsi anche sulle colpe e sulle ipocrisie della sua stessa parte. Questo è il nocciolo della narrazione de “Gli aquiloni”, romanzo dello scrittore lituano Romain Kacew che qui usa lo pseudonimo di Romain Gary. 
L’autore è stato uno dei protagonisti della resistenza francese contro i nazisti, fino ad essere decorato con la Legion d’onore per poi continuare nel dopoguerra come diplomatico, sempre al servizio della Francia. Durante il servizio nell’Aviazione Francese scrive “Educazione europea” pubblicato nel 1945 e che Jean Paul Sartre giudicò il miglior romanzo sulla Resistenza.
“Gli aquiloni” riprende il periodo bellico narrando le vicissitudini del giovane Ludovic Fleury, allevato da uno zio reduce della Prima Guerra mondiale diventato fervido pacifista e grande costruttore di aquiloni. Ludovic, spesso chiamato Ludo, cresce a Clery, nella campagna normanna, segnalandosi per una prodigiosa memoria ed imparando “l’arte gentile dell’aquilone”. 
L’incontro con la bellissima aristocratica Polacca Lila  Bronicki cambierà la sua vita, segnando la sua educazione sentimentale e proiettandolo in quello che sarà il suo futuro da resistente francese. Ma Ludovic nella sua decisa avversione al nazismo e nel suo intenso impegno da partigiano riesce a non farsi travolgere dall’odio ed mantenere una sorta di disincanto anche nei confronti dei suoi compatrioti.  Leggiamo un brano:

“Non odiavo più i tedeschi. Quattro anni dopo la disfatta, quello che avevo visto attorno a me mi rendeva difficile il trantran di ridurre la Germania ai suoi crimini e la Francia ai suoi eroi. Avevo fatto l’apprendistato di una fraternità molto diversa da quei radiosi luoghi comuni: mi sembrava che fossimo indissolubilmente legati da ciò che ci rendeva diversi gli uni dagli altri, ma che poteva capovolgersi in qualsiasi momento per renderci crudelmente simili. Arrivavo addirittura a credere che, nella lotta a cui prendevo parte, aiutassi i nostri nemici, pure loro”. (p.253)

La comune umanità lo avvicina in qualche modo ai suoi nemici, fra i quali ci sono anche parenti di Lila e generali anti - hitleriani, e pur non cedendo mai all’opportunismo riesce ad empatizzare e stabilire un contatto con l’Altro. L’amarezza semmai viene dalla consapevolezza che, alla fine di tutto persiste sempre un “nazista che cova dentro di noi”; leggiamo ancora:

  “… Don Chisciotte, quel grande realista misconosciuto che aveva proprio ragione quando attorno a sé, in un mondo apparentemente pacifico e familiare, vedeva dei dragoni schifosi, mostri che avevano imparato alla perfezione a ingannare e a mimetizzarsi sotto l’aspetto di un brav’uomo  <<che non saprebbe far male ad una mosca>>. Dall’inizio dell’umanità, il numero di <<mosche>> a cui questo rassicurante luogo comune è costato le ali dovrebbe ammontare a centinaia di milioni.
E’ da tempo che mi ha abbandonato qualsiasi traccia di odio per i tedeschi. E se il nazismo non fosse una mostruosità disumana? Se fosse ‘umano’? Se fosse una confessione, una verità nascosta, rimossa, camuffata, negata, acquattata in fondo a noi stessi, ma che finisce sempre per tornar fuori? I tedeschi, si, certo, i tedeschi… Adesso tocca a loro, nella storia, tutto qui. Si vedrà, dopo la guerra, una volta che la Germania sarà sconfitta e il nazismo si sarà dileguato o nascosto, se altri popoli, in Europa, in Asia, in Africa, in America, non verranno a dargli il cambio. Un compagno venuto da Londra ci aveva portato un libretto di poesie di un diplomatico francese, Louis Roché. Parlava del dopoguerra. Mi sono rimasti in mente due versi:

Il y aura de grands massacres
C’est ta mère qui te le dit.
(Ci saranno grandi massacri
E’ tua madre che te lo dice.)” (p.305)

All’interno della narrazione principale ci sono poi tante microstorie e tanti modi diversi di reagire ai terremoti della Storia: l’aristocratica ed insensata decadenza della famiglia Bronicki, l’atavica indifferenza verso il genere umano dei Magnard, l’umanità dei Cailleux, il collaborazionismo, la durezza ottusa del capo partigiano Soubabère, la bontà mista al cinismo di Julie Espinosa, lo zelo di quelli “che sono diventati resistenti dopo che i tedeschi se ne sono andati”, la resistenza “culinaria” del cuoco Duprat e la follia gentile dello zio Ambroise, che alla notizia degli eccidi e delle deportazioni contro gli ebrei parte per il villaggio di Le Chambon-sur-Lignon che, sotto la guida del pastore Andre Trocme si distinse per la sua opera di protezione nei confronti di centinaia di ebrei, una storia poco conosciuta di resistenza non violenta che l’autore ha avuto molto a cuore e che forse merita un post a parte.

Questi sono i temi principali di una storia che è essenzialmente un classico “romanzo di formazione” ma che poi offre una prospettiva molto più complessa, unendo memoria storica, poesia e riflessione filosofica conservando una scrittura fresca e agevole; non troviamo i buoni e i cattivi, ma esseri umani poco stereotipati, con i loro lati luminosi e i loro lati oscuri, immersi in una realtà che li sovrasta e li sconvolge, ma alla quale spesso non si piegano; un libro ci mostra davvero prospettive differenti per interpretare la realtà contemporanea.
Non perdetevelo!

Chiudo con un ultimo estratto, abbastanza emblematico della “educazione europea” di Romain Kacew, umana, disincantata e per niente assolutoria: nel brano i protagonisti stanno cercando di sfuggire all’intenso bombardamento successivo allo sbarco in Normandia:

“Sbucando sulla strada di Ligny, ci trovammo di fronte a un’autoblindo capovolta e bruciata che fumava ancora; accanto al veicolo c’erano due soldati tedeschi morti; un terzo era seduto con la schiena appoggiata a un albero, si reggeva la pancia, aveva gli occhi stravolti ed esalava una specie di rantolo o fischio, come un sifone vuoto. La sua faccia mi parve familiare e sulle prime credetti di conoscerlo, ma subito capii che ad essermi familiare era l’espressione di sofferenza. L’avevo già vista sul viso di Duverrier, quando il nostro compagno si era trascinato fino alla fattoria dei Buis, dopo la sua evasione dalla Gestapo di Clery, per venir lì a morire. Tedeschi o francesi, i quei momenti siamo intercambiabili. In seguito ci pensavo ogni volta che sentivo l’espressione <<banca del  sangue>>. Aveva uno sguardo supplichevole. Provai ad odiarlo per non dovergli dare il colpo di grazia. Niente da fare. Devi avercelo dentro. Io non ci ero portato. Presi il suo Mauser, lo armai davanti al suo naso ed aspettai per essere del tutto sicuro. Fece una specie di sorriso.
<<Ja, gut…>>
Gli ficcai due pallottole nel cuore. Una per lui, una per tutto il resto.
Fu il mio primo gesto di fraternità franco-tedesca.
Lila si era turata le orecchie, aveva chiuso gli occhi e voltato il capo, in un gesto femminile o infantile, o entrambe le cose.
Sentii abbastanza stupidamente che mi ero fatto un amico in quel tedesco morto.”



LUI


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